5 cose che ho imparato aiutando mio padre a morire: il blog di Noah Michelson

Un racconto emozionante e straziante quello che Noah Michelson ha pubblicato sul proprio blog e che si chiama “Cinque cose che ho imparato aiutando mio padre a morire”. Il pezzo è stato tradotto e pubblicato dall’HuffPost Italia.

cinque cose che ho imparato aiutando mio padre a morireCINQUE COSE CHE HO IMPARATO AIUTANDO MIO PADRE A MORIRE

Nell’estate del 2006 mio padre sviluppò d’un tratto una tosse profonda e spaventosa, tipo quella di un film di fantascienza, e come in famiglia non se n’erano mai sentite prima. Non era quel genere di tosse tipica di un normale raffreddamento. Era quella particolare qualità di tosse in grado di gettare nel panico chiunque la sentisse – inclusi gli sconosciuti dall’altra parte della corsia di un minimarket. Era un avvertimento. Un presagio. Solo che ancora non lo sapevamo.

La tosse andò avanti per mesi, e dopo una diagnosi sbagliata di polmonite, solo a settembre scoprimmo che si trattava di cancro ai polmoni. Anche in questo momento mi ci vuole un po’ per cogliere a pieno il significato delle parole “cancro ai polmoni” – e tutto ciò che quest’espressione ha portato nella mia vita, cambiandola.

Esattamente sette anni fa, sei mesi dopo aver scoperto di esser malato, papà morì. Quei sei mesi furono i più tristi e strani della mia vita. Li attraversai al rallentatore, come in un cartone animato, a New York, a 700 miglia da lui e da mia madre, nel Wisconsin, dove lottava contro il male che gli faceva marcire i polmoni, e mai sazio allungava i suoi artigli sul resto del suo corpo. A metà febbraio decise di smettere di lottare – decise di morire – e tornai a casa per trascorrere i suoi ultimi giorni con lui, mia madre e miei fratelli.

Adesso quando arriva febbraio, un’appiccicosa inquietudine mi cola dal cervello per raccogliersi nel mio petto, e finisco col trascorrere le quattro settimane seguenti oscillando fra la necessità di distrarmi dall’orrore di ciò che accadde durante gli ultimi mesi di vita di mio padre, e il desiderio di cullare quei ricordi, rigirandomeli di continuo nella mente affinché non ne dimentichi mai i contorni frastagliati.

È in onore di mio papà, Robert Michelson, uno degli uomini più incredibili che abbiamo mai trascorso un po’ di tempo su questo pianeta – e in onore del dolore, della sofferenza e della meraviglia evocate dalla morte – che oggi condivido cinque cose che ho imparato aiutandolo a morire.

1. Fa’ che tutto – tutto – abbia importanza oggi, perché non sai mai che cosa il futuro abbia in serbo per te.

Mio padre era un avvocato di successo, e nel suo lavoro era brillante. Aveva intenzione di lavorare almeno fino all’età di 85 anni – non sarebbe mai andato in pensione – e si dava un gran daffare per assicurarsi di restare in forma, fisicamente e mentalmente. Non ha mai fumato in tutta la sua vita, ha bevuto di rado, camminava ritualmente per molte miglia al giorno in compagnia del nostro cane, Harry, e ingoiava vitamine e integratori ogni mattina a colazione. Leggeva avidamente, scriveva editoriali per il giornale locale, e partiva per un viaggio ogni volta che poteva, ma più di qualsiasi altra cosa era genuinamente curioso del mondo e della gente intorno a lui, e quella curiosità era contagiosa.

Amava mia madre con quel genere di amore bianco, scottante e luminoso che non ho più visto da nessun’altra parte, da quando se n’è andato. Amava incondizionatamente me e i miei fratelli, e si assicurava che sapessimo di essere amati. Faceva domande. Dava risposte. E quando voleva essere provocatorio aveva un certo sguardo, accadeva spesso. Odiava le ingiustizie. Quando andavamo nelle grandi città portava sempre in tasca un mucchio di banconote da un dollaro, così da esser pronto a dare qualcosa a chi viveva per strada e chiedeva aiuto. Piangeva, quando vedeva i vecchi film. Faceva lo scemo come nessun altri che abbia mai incontrato.

La più grande paura di mio padre era che gli accadesse qualcosa per cui avrebbe finito col trascorrere i suoi ultimi giorni soffrendo. Ci scherzava su – prima del cancro, quando ancora scherzava – dicendo che quando sarebbe diventato molto vecchio, ma non così vecchio da aver perso il senno, avrebbe noleggiato una decappottabile rosso fiammante, e si sarebbe precitato giù da qualche scarpata in Italia. Era così che se ne sarebbe voluto andare: istantaneamente, in un lampo cromato, in una nuvola di costosissimo fumo, in una palla di fuoco – tutto pur di non appassire, pur di non affrontare un finale senza dignità.

Ma al cancro ai polmoni di tutto questo gliene importava poco. Tutto quel buon karma accumulato, tutti i programmi, tutto il suo amore – niente di tutto ciò contava. Scoprii che le uniche cose che contano sono quelle che stiamo facendo adesso – oggi. Non possiamo mai sapere se una qualche minuscola scintilla velenosa si stia accasando dentro di noi, o dentro qualcuno che amiamo. Non possiamo mai sapere quanto tempo ci resta.

2. Affrontare la propria fine porta una certa pace.

Quando mio padre scoprì di avere il cancro ai polmoni, era seriamente incazzato. Era troppo giovane; stava troppo bene di salute; non se lo meritava. Quello era il genere di cose che accadeva agli altri, non a lui. All’inizio provò a reagire. Si fece visitare dagli specialisti. Iniziò la chemio e la radio. Si decise a provare l’agopuntura, finché l’uomo da cui andava, una persona crudele che forse pensava di fargli una cortesia, o di essere professionale, non gli chiese: “A che scopo? Fra sei mesi sarà morto”.

Quella fu la nostra prima doccia di realtà. La seconda avvenne subito dopo il Giorno del Ringraziamento, quando con una telefonata gli comunicarono che il cancro si era esteso fino al cervello. Non ne seppi nulla fin quando mia madre scoppiò a piangere nel parcheggio del cinema vicino casa nostra, verso la fine del pomeriggio, e mi chiese, singhiozzando violentemente, “Come farò ad affrontare tutto questo?” – “Questo” significava “perderlo”, “vivere senza di lui”. Non fu certo quella l’ultima volta in cui mi limitai a tenerla stretta, in silenzio, semplicemente perché non c’era niente da dire.

A febbraio mia madre mi chiamò per dirmi che mio padre avrebbe smesso di lottare. Non sapevo quale situazione avrei trovato al mio ritorno in Wisconsin, ma quando arrivai a casa, mio padre era già stato trasformato dalla sua decisione. La cattiveria era svanita, sostituita da una calma della quale non avrei mai potuto sospettare l’esistenza. All’epoca riusciva a malapena a parlare, ma pochi istanti dopo che varcai quella porta i miei fratelli e io ci ammucchiammo sul suo letto, e lui chiese a mamma di portargli quella bellissima scatola di legno piena della sua amata collezione di orologi da polso, così che ciascuno di noi avrebbe potuto scegliere quelli che gli piacevano. Sorrise. Rise. Tossì. E quella fu l’ultima volta che vidi davvero mio padre – l’uomo che mi aveva cresciuto affinché diventassi l’uomo che sono. Era come se avesse conservato le forze per trascorrere un’ultima serata con la sua famiglia, senza alcuna traccia di quella rabbia o autocommiserazione che l’avevano consumato nel corso dei sei mesi precedenti. Invece era pieno di gioia e di pace – parole che, fino ad allora, conoscevo solo nel loro senso più astratto, nell’immaginario dei canti natalizi e dei biglietti augurali della Hallmark.

3. Mai sottovalutare il potere dell’arte.

Aiutare mio padre a morire significò trascorrere ore ed ore a far nulla. Mia madre e i miei fratelli facevamo a turno stesi sul letto, mentre dormiva o quando era sveglio, così che al suo fianco ci potesse sempre essere un corpo caldo, così che sapesse che non era mai solo. Per trascorrere il tempo decisi di leggere la serie I Racconti di San Francisco [Tales From the City, ndt] di Armistead Maupin. Ne avevo sentito parlare molto bene, ma non non avevo idea che avrei finir per sentirmi risucchiato interamente da quel mondo affascinante che Maupin colloca nella San Francisco dagli anni ’70 in poi. Divorai l’intera serie, perdendomi nelle vite, nei problemi e negli amori di persone che non sono mai vissute, e meditai precisamente su ciò che volesse dire vivere, avere dei problemi e amare. Fu davvero un sollievo potermi accostare e riflettere su tutti quei problemi e pensieri con l’aiuto dei suoi personaggi – sfuggendo alla mia vita per almeno qualche minuto alla volta – e sono grato a Maupin per avermi aiutato a dare una forma a quelle ore senza fine, per avermi fornito uno scopo che avrei potuto inseguire e realizzare, mentre il resto del mio universo deragliava lontano dalla propria orbita, e per il grande conforto che la sua opera mi ha regalato.

4. Tutti meritiamo il diritto di morire.

Quando mio padre decise di morire, intraprese uno sciopero della fame – nel caso il cancro non agisse abbastanza velocemente di suo – con la speranza che avrebbe potuto cagionare la propria fine più in fretta possibile. Beveva un po’ di nettare di pesca qualche volta al giorno (adesso il solo pensiero del succo, in quelle bottigliette dalla strana forma, mi fa star male), ma a parte quello se ne stava nel letto, aspettando che la morte si affacciasse a prenderlo con sé. E non fu veloce. Ciò che accadde fu che pian piano si trasformò in uno zombie. Verso la fine non faceva praticamente altro che lamentarsi come un animale ferito mortalmente. Nella mia mente riesco ancora a sentirne il suono. Ho rinunciato a sperare che un giorno smetterò di farlo. Inoltre, invecchiò di decenni in pochi giorni, finendo col sembrare venti o trent’anni più vecchio di quanto non fosse. Fu l’esperienza più vicina a un film horror che abbia mai vissuto, e non c’era nessuno a salvarlo, o a salvarmi.

Più di qualsiasi altra cosa, voleva solo morire. Un giorno il campanello suonò. Il nostro campanello non suonava mai, e dopo averlo sentito mio padre si destò dal dormiveglia, e mi chiese: “Sono loro?”. Non sapevo di chi stesse parlando, per cui gli chiesi: “Loro chi, Papà?”. Mi rispose: “La gente venuta a uccidermi”. Mi spezzò il cuore scoprire come fosse in realtà convinto che una qualche allegra brigata di medici approvati da Kevorkian fosse giunta a portargli il dono dell’eutanasia. Per quanto triste, e allo stesso tempo terrificante, fosse stato per me il momento in cui compresi che questo era esattamente ciò di cui era convinto – e che sperava – stesse per accadere, seguirono momenti ancor più tristi, e ancor più terrificanti, come quando mi chiese (e così fece anche con mia madre, in occasioni diverse) di ucciderlo. Non penso di essere in grado di spiegare che cosa significhi trovarsi davanti al proprio padre, o a ciò che resta del proprio padre, che ti guarda e ti prega di ucciderlo – e lo fa sinceramente.

Presi in considerazione la cosa, e so che anche mia madre lo fece. Sarebbe stato abbastanza facile – all’epoca avevamo accumulato scorte di cerotti alla morfina in quantità tale da far fuori una megattera, oppure avremmo potuto tenergli un cuscino sul volto – ma eravamo entrambi terrorizzati dalla possibilità di finire in galera, se qualcuno l’avesse scoperto. Perciò mi limitavo a massaggiargli la schiena, raccontandogli i miei aneddoti preferiti delle nostre gite di quando ero piccolo – le avventure nei castelli, sulle mongolfiere, sotto le cascate, tutti insieme, in salute, e felici – finché non si riaddormentava.

Uno dei più grandi rimpianti – con cui ancora mi trovo a lottare – è non aver onorato la sua richiesta di ucciderlo, il non esser riuscito a metter fine alla sua sofferenza. Vorrei aver potuto essere più forte. Meno timoroso. Meno egoista? Ma non avrei dovuto poter scegliere, e non avrei dovuto vivere con quel senso di colpa. Il diritto a morire in maniera umana non dovrebbe esistere solo nei nostri sogni febbricitanti.

5. L’amore esiste.

Quando avevo cinque anni anch’io ho avuto il cancro. Il tumore che si manifestò nel mio addome era di un genere piuttosto insolito, e per curarlo mi sottoposero a operazioni, chemio e radio. Dopo una delle due operazioni i medici mi riempirono lo stomaco di garza, spiegando a mio padre che l’avrebbe dovuta rimuovere al mio ritorno dall’ospedale. Atterrito dal compito che gli era stata affidato, mi sollevò nella doccia, e iniziò ad estrarre una quantità apparentemente infinita di garza dall’incisione, come un mago da quattro soldi a una festa di compleanno. Ricordo la grande tenerezza con cui lo fece, nonostante il terrore, e le lacrime che scorrevano su entrambi i nostri volti.

Questo è forse il mio primo ricordo dell’amore di mio padre in azione, e mi tornò in mente mentre giacevo nel suo letto, uno o due giorni prima che si riducesse appena a un guscio vuoto – vivo, ma solo fisicamente, senza alcun segno dell’uomo che un tempo era vissuto nel suo corpo – e trovò comunque il fiato per sussurrarmi: “Spero di essere stato un buon padre per te”. In quell’istante il mio cuore si fermò, e poi, altrettanto in fretta, si gonfiò tanto da riempirmi il petto – quanto il mio corpo, quanto ogni momento io avessi vissuto fino ad allora – e allora capii perfettamente che cosa stava accadendo, e finalmente mi trovai faccia a faccia con il significato dell’essere amati e dell’amare, e come ciò fosse allo stesso tempo tutto, e non abbastanza.

Non riuscivo a impedire che accadesse. Non riuscivo a farci niente. Riuscivo a malapena a comprenderlo. Sapevo solo di essere amato, e gli dissi che ero fortunato ad aver trascorso anche un solo giorno – anche solo un’ora – con lui.

Meno di una settimana più tardi, mio padre morì.

Mi manca. Ci sono giorni in cui qualcosa di incredibile o di brutto mi succede, e vorrei raccontarglielo, ma non posso. Ci sono ragazzi che ho amato, e ragazzi che mi hanno rovinato, posti di lavoro che ho conquistato, e lavori che ho odiato, e una serie sparsa di trionfi e incubi di cui avrei voluto renderlo partecipe. La realtà è che se n’è andato. Si è perso così tanto, incluso l’uomo che sono diventato crescendo, e quanto più coraggioso sono diventato dall’ultima volta che l’ho stretto a me, e anche tante piccole cose stupide come i miei bellissimi tatuaggi, incluso il fantasma sul mio bicipite, che mi feci fare per lui.

La morte di mio padre fu una tragedia. Non augurerei le quattro settimane trascorse ad aiutarlo a morire a nessuno, ma nemmeno vi rinuncerei mai. Sono mie. E ho imparato tanto su ciò che sono, su chi fosse mio padre, su che cosa significhi amare, su che cosa significhi perdere qualcuno che stupidamente pensavi non avresti mai perso, e, alla fine, su che cosa significhi dover poi tirare avanti – su che cosa significhi doversi alzare ogni mattina e proseguire nella propria vita.

 

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